CITAZIONE
Posto qui un interessante spunto sui Lorena in esilio.
I Lorena in esilio.
Pare che gli Asburgo Lorena in esilio in Austria dopo l'Unità fossero tanti e che Sissi non li amasse.
Elena45
Sissi, come è noto, si sposò appena sedicenne nel 1854, e questi parenti toscani non ebbe occasione di conoscerli fino al 1859.
In quell’anno, all’inizio di maggio, arrivarono tutti in Austria: il Granduca Leopoldo (nato a Firenze nel 1797), sua moglie la Granduchessa Maria Antonietta di Borbone 2 Sicilie (nata a Palermo nel 1814), ed i loro figli: Ferdinando (n. 1835), Carlo (n. 1839), Maria Luisa (n. 1845), Luigi (n. 1847) e Giovanni (n. 1852). C’erano anche una nipotina di un anno, Maria Antonietta, figlia del principe ereditario Ferdinando (che aveva sepolto da meno di tre mesi la giovane moglie Anna di Sassonia); ed una specie di “nonna”, cioè la vedova del precedente Granduca Ferdinando III, Maria Ferdinanda Amalia di Sassonia (n. a Dresda il 27 aprile del 1796).
Un branco di Italiani, e probabilmente neppure di buon umore. Nessuno di loro era un audace cavallerizzo da circo, nessuno scriveva poesie o suonava la cetra; nessuno, insomma, pareva fornito di quelle eccelse qualità che avrebbero potuto rendere simpatica una persona all’Imperatrice Elisabetta.
Erano partiti da Firenze il 27 aprile (proprio il giorno del compleanno della Granduchessa Vedova), alle sette di sera, su tre carrozze, accompagnati da due giovani e fedeli aristocratici Toscani, Nerli e Silvatici, ed avevano viaggiato tutta la notte, passando il confine all’alba del 28 aprile alle Filigare, dopo il Passo della Futa.
A Bologna avevan dovuto sostare qualche giorno, per procurarsi vestiti e biancheria, visto che erano partiti con ben scarso bagaglio, giusto coi vestiti che avevano addosso. All’inizio del viaggio, vedendo per l’ultima volta il panorama della loro città, sovrastato dal cupolone , si erano accorti di non aver portato con se nemmeno i fazzoletti, e la Granduchessa Maria Antonietta aveva strappato parte della sua sottoveste per distribuirla ai familiari; era imbarazzante aver voglia di piangere e non avere neppure il fazzoletto.
Questo era stato il congedo del Granduchi dalla Toscana. Ora qualcuno digiuno di storia, o anche solo non abbastanza informato sul caso specifico, potrebbe pensare che, per partire così, senza neppure i bagagli, a Firenze ci fosse stata chissà quale rivoluzione, con giacobini fiorentini pronti ad assaltare Palazzo Pitti armati di picche e berretti frigi.
In realtà, non c’era stato niente di tutto questo. Il popolo era stato ancora una volta “il grande assente”, secondo una illuminante definizione che settant’anni dopo avrebbe espresso Gramsci a proposito del nostro risorgimento.
I contadini ed il popolo minuto, quindi la stragrande maggioranza della popolazione, sia in Toscana che altrove erano ancora attaccati alla Religione, alla vecchia forma di governo, agli antichi Stati indipendenti ed alle tradizioni degli avi. Essi erano i veri depositari della cultura; ma siccome erano poveri, in gran parte analfabeti, e parlavano solo il dialetto, non furono mai “opinione pubblica”.
Per spiegare più in dettaglio cosa successe, è necessario fare un passo indietro, e mi scuso anticipatamente della digressione.
Gli anni ’50 del XIX secolo, come è noto, videro il consolidamento del Regno di Sardegna come nazione guida dell’Italia, con le astute manovre diplomatiche del ministro Cavour, la partecipazione alla Guerra di Crimea (primo, ma non ultimo esempio di intervento militare italiano in zone a fatica rintracciabili sul mappamondo), ed il corteggiamento dell’astro nascente nel panorama delle potenze europee, l’uomo nuovo, Napoleone III Imperatore dei Francesi. Massone e protettore del Papa, repubblicano e monarchico, rivoluzionario ed uomo d’ordine, Napoleone III fu un personaggio estremamente contraddittorio, ma senza dubbio a lui spetta il merito (o demerito, a seconda dei punti di vista) di aver attuato l’unificazione italiana.
In quegli anni tutti erano concordi sul fatto che l’Italia, prima o poi, ed in una qualche forma, dovesse essere unificata. Perfino da parte austriaca vennero avanzati dei progetti in tal senso, e precisamente da parte dell’Arciduca Massimiliano, Viceré del Lombardo-Veneto e fratello dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Ovviamente, un progetto di unificazione confederale promosso da un Arciduca austriaco non poteva piacere al Re di Sardegna ed al suo Ministro, Conte di Cavour. Né i progetti in tal senso di Cavour potevano essere graditi dal Viceré del Lombardo-Veneto e dagli altri regnanti italiani. Dei quali il più intelligente e progressista, il Duca Carlo III di Parma, era stato proprio in quegli anni molto opportunamente assassinato, si disse dai mazziniani; se ciò è vero, Mazzini avrebbe reso davvero un grande servigio ai Savoia, togliendo di mezzo l’unico personaggio in grado di dar ombra a Vittorio Emanuele, e di contrastare in qualche modo l’egemonia che il Piemonte si apprestava ad esercitare sulla unificazione italiana, attribuendosi una sorta di “monopolio” sul patriottismo e sull’italianità.
In tale clima fraterno, l’italiano Felice Orsini si recò a Parigi per lanciare una bomba contro la carrozza di Napoleone III che, miracolosamente illeso, si ricordò improvvisamente di certi obblighi contratti verso la causa dell’unificazione italiana al tempo in cui, non ancora assurto ai fasti del trono imperiale di Francia, era esule in Italia e faceva parte della Carboneria.
Questi “ricordi di gioventù” condussero Napoleone, nel luglio del 1858, ad incontrare a Plombiéres il Conte di Cavour per mettere a punto un piano di guerra contro l’Austria. Tali macchinazioni, che vanno sotto il nome di “accordi di Plombiéres”, e vennero ovviamente tenute segrete, prevedevano lo scoppio di una insurrezione a Massa e Carrara, che avrebbe provocato un intervento militare austriaco, e quindi un controintervento del Piemonte, appoggiato dalla Francia; poi la guerra di liberazione della Lombardia e del Veneto dagli austriaci, e la loro annessione al Regno di Sardegna. La parte finale degli accordi prevedeva quindi un nuovo assetto dell’Italia, come confederazione di tre regni: del Nord, comprendente Piemonte, Lombardia, Veneto, Parma, Modena e Bologna, sotto lo scettro dei Savoia; del Centro, comprendente Toscana, Umbria, Marche, Romagna e parte della provincia di Viterbo, affidato ai Lorena o ai Borbone o ai Bonaparte; del Sud, con il Regno delle Due Sicilie, peraltro già esistente, lasciato ai Borbone, o dato ai Murat; la presidenza della Confederazione Italiana sarebbe stata affidata al Papa. In cambio, alla Francia sarebbero state cedute Nizza e la Savoia, unica cosa che poi effettivamente si verificò.
Sulla base di questi accordi, che in quanto a democrazia e rispetto per i diritti dei popoli non avevano niente da invidiare al patto Ribbentrop-Molotov del 1939, appare evidente l’importanza assunta dalla Toscana nel decidere il futuro destino dell’Italia: una Toscana semplicemente annessa al Nord, cioè al Regno di Sardegna, avrebbe compromesso qualsiasi progetto di federazione o confederazione italiana.
Forte di questi patti, all’inizio del 1859 il Re Vittorio Emanuele annunciò al suo Parlamento di non poter più rimanere insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si levava verso di lui.
All’epoca, la Toscana era uno degli Stati italiani più felicemente amministrati, e sicuramente quello in cui eventuali “gridi di dolore” sarebbero stati più fuori luogo; un relativo benessere era diffuso presso tutti i ceti della popolazione, il bilancio statale era in attivo, le tasse poco gravose, gli amministratori pubblici onesti. Il Granduca regnante, l’ormai anziano Leopoldo II, era una degnissima persona che, invece di occuparsi di “congiure contro la pace”, si preoccupava di costruzione di strade, ponti e ferrovie, di lavori idraulici e bonifiche di zone paludose.
Il Granduca ed i suoi Ministri, impegnati in tali opere di progresso civile del loro Stato, non si accorsero, purtroppo, del pericolo incombente in caso di guerra fra il Piemonte e l’Austria, e continuarono con la tradizionale politica di mitezza e tolleranza che aveva fatto della Toscana il rifugio dei perseguitati politici provenienti dagli altri Stati italiani, fiduciosi che, in caso di guerra, la Toscana avrebbe potuto mantenersi neutrale.
Politica di mitezza e tolleranza che, in quei primi mesi del 1859, permise a Cavour di inviare a Firenze, come Ministro Plenipotenziario il Conte Carlo Boncompagni, con mandato di trascinare con ogni mezzo la Toscana in guerra contro l’Austria; permise lo scatenarsi di una massiccia campagna di stampa favorevole alla guerra, e la partenza di volontari toscani per arruolarsi nell’esercito piemontese; permise inoltre che uno sparuto gruppo di aristocratici e borghesi fiorentini, capeggiato dal Barone Bettino Ricasoli e dal Marchese Ferdinando Bartolommei, organizzasse, in accordo con gli emissari di Vittorio Emanuele, una specie di “comitato rivoluzionario” che caldeggiava la guerra solo come pretesto per deporre la dinastia regnante e portare la Toscana all’annessione con il Regno piemontese; permise infine un completo disorientamento dell’opinione pubblica toscana che, ingannata dall’inerzia del Governo toscano di fronte a questi fatti gravissimi, pensò che lo stesso Granduca fosse disposto a dichiarare guerra all’Austria come nel 1848.
Invece Leopoldo II era fermamente deciso a mantenere la neutralità della Toscana: agli inviati austriaci, che a più riprese chiesero l’intervento del piccolo esercito toscano a fianco dell’Austria, oppose un rifiuto, così come alle offerte di Boncompagni per una alleanza con il Piemonte.
Nel frattempo, dopo l’ultimatum austriaco al Regno di Sardegna (che fornì il pretesto senza bisogno della progettata insurrezione a Massa e Carrara), scoppiò effettivamente la guerra, e la conseguenza immediata fu la cosiddetta “rivoluzione del 27 aprile 1859” in Toscana. Si trattò, in realtà, di una pacifica dimostrazione di “interventisti” che si tenne a Firenze nei giorni 26 e 27 aprile; la richiesta di intervento, avanzata sulla piazza dai dimostranti e nel palazzo dagli aristocratici liberali, decise il Granduca, piuttosto che a cedere, a partire con tutta la famiglia, nel giro di poche ore e senza neanche fare i bagagli, lasciando la Toscana.
I fiorentini fecero ala al passaggio delle carrozze salutando il Granduca, senza neanche lontanamente immaginare che il congedo sarebbe stato definitivo. Tutto fu così improvviso che nella maggior parte della Toscana la notizia arrivò quando il Granduca era già fuori dai confini dello Stato.
Il “governo provvisorio” nominato la sera stessa del 27 aprile dal Consiglio Comunale di Firenze, si trovò in pratica già superato dal tempismo dell’iniziativa personale di Bettino Ricasoli, il quale, senza che nessuno lo avesse incaricato, il 27 aprile era già a Torino a trattare con il Conte di Cavour. Risultato di tali trattative fu, praticamente, la consegna della Toscana al Piemonte: giuramento delle truppe toscane a Vittorio Emanuele, invio in Toscana di ufficiali piemontesi, forniture militari all’esercito piemontese, divieto di costituzione di una Guardia Nazionale toscana, nomina di un governatore civile e militare da parte del Re di Sardegna.
Il Conte Boncompagni, che aveva servito così bene il suo Re, travalicando di gran lunga i limiti della correttezza diplomatica, fu nominato Commissario Regio per la Toscana.
A questo punto stavano le cose quando la famiglia granducale toscana arrivò in Austria, e Sissi ebbe modo di fare la loro conoscenza. Ma certo nessuno pensava, in quel momento, che la loro permanenza in Austria sarebbe diventata definitiva.
Nel giugno, finalmente, le sorti della guerra vennero decise dalla battaglia di Solferino, vinta dai francesi; l’armistizio di Villafranca, firmato da Francesco Giuseppe e Napoleone, e sottoscritto anche da Vittorio Emanuele, prevedeva esplicitamente la restaurazione del Granduca in Toscana. Per questo motivo il vecchio Granduca Leopoldo, volendo facilitare le cose, abdicò in favore del figlio Ferdinando. L’Armistizio prevedeva, inoltre, la formazione di una Confederazione italiana, a cui avrebbe partecipato anche il Veneto, pur restando austriaco, mentre la Lombardia sarebbe stata ceduta alla Francia, che a sua volta l’avrebbe ceduta al Piemonte.
In seguito a tale accordo, passato alla storia quasi come un tradimento di Napoleone III nei confronti dell’Italia, i governanti provvisori della Toscana si accorsero, dopo ben quattro mesi di governo, di non rappresentare l’espressione della volontà popolare, e quindi indissero delle elezioni, a suffragio estremamente limitato in base al censo, a cui partecipò circa il 2% della popolazione.
L’Assemblea che venne eletta risultò composta da 172 Deputati, tra i quali si contavano: 2 Principi, 1 Barone, 29 fra Marchesi e Conti, 31 Avvocati e 45 Dottori. Tale Assemblea, non molto rappresentativa di un paese in cui almeno il 75% della popolazione era occupato solo nel settore agricolo) votò a grande maggioranza tra il 16 e il 20 agosto del 1859 due decreti a favore della deposizione dei Lorena e dell’annessione della Toscana al Piemonte. Con ciò il Commissario Regio piemontese Boncompagni terminò il suo mandato in Toscana; evidentemente a Torino si considerò abbastanza “Commissario Regio” un tipo come Bettino Ricasoli che, non si sa bene se per interesse personale o per certe utopie maldigerite che gli ottenebravano il giudizio, era stato capace di compiere un tale tradimento nel confronti del suo popolo e del suo sovrano.
Vittorio Emanuele, per riguardo a Napoleone III, non aveva ancora esplicitamente accettato l’annessione della Toscana, ma lasciava il partito annessionista in buone mani: non per niente, infatti, Bettino Ricasoli si guadagnò proprio in quel periodo il soprannome di “Barone di Ferro”, allusivo alla sua caparbietà ed ai metodi non proprio democratici impiegati per raggiungere i suoi obbiettivi. La mitezza e la tolleranza del Granduca ebbero modo di essere rimpiante dai toscani, perché Ricasoli usò metodi da dittatore, introducendo nel dibattito politico l’uso del manganello, e riuscendo a soffocare qualsiasi opposizione, ottenendo fra gli intellettuali toscani numerose conversioni alla monarchia sabauda.
I mesi seguenti furono dedicati a serrate trattative diplomatiche tra Vienna, Parigi e Torino, poiché le clausole stabilite a Villafranca non erano state rispettate dai Piemontesi, che sulla questione della Toscana, dei ducati dell’Emilia e delle Legazioni (che erano nella stessa situazione) sostenevano di non poter far niente e di non avere alcuna responsabilità nell’accaduto. Troppo lungo sarebbe enumerare lo svolgimento di tali trattative, e le diverse soluzioni proposte. Basterà comunque accennare al fatto che da parte piemontese si preferì rinunciare al Veneto in una Confederazione pur di non fare la Confederazione.
Alla fine, l’unica via d’uscita per risolvere la spinosa questione apparve quella del Plebiscito, che ebbe luogo il 1 marzo del 1860.
Stavolta la votazione ebbe luogo con il suffragio universale maschile, votò circa il 22% della popolazione toscana, e l’annessione al Piemonte vinse a schiacciante maggioranza, anche perché il voto, per giunta palese, si svolse in un tale clima di intimidazione che un risultato diverso sarebbe stato impossibile. Il Barone Ricasoli, tanto per non smentirsi, dette l’esempio agli altri proprietari terrieri toscani obbligando i propri contadini ad andare a votare accompagnati dal fattore armato di fucile.
Questa fu la fine della Toscana indipendente, libera, ricca e civile, rimpianta nel giro di pochi anni anche dagli stessi uomini che il 27 aprile avevano provocato la sua fine, e che si trovarono ad assistere agli scandali ed agli sperperi di Firenze capitale, con la città invasa da gente oltremontana che, nel migliore dei casi, proponeva di intonacare la facciata di Palazzo Vecchio ed imbiancare i muri affrescati del Salone dei 500. La pura e semplice annessione al Piemonte della Toscana e dei Ducati emiliani, inoltre, fu la chiave di volta del Risorgimento, ed aprì la strada, di lì a pochi mesi, ad una delle pagine più vergognose della nostra storia: l’aggressione armata (senza neppure una dichiarazione di guerra) del pacifico Regno delle Due Sicilie, in cui l’esercito piemontese si dedicò a bruciare paesi ed a massacrare anche la popolazione inerme.
Comunque, fu così che, con scarso entusiasmo di Sissi, e con profondo dolore degli interessati (e per motivi più seri che non l’antipatia di Sissi, della quale probabilmente neppure si resero conto) il soggiorno in Austria degli Asburgo Lorena del ramo Toscano divenne definitivo.
Il Granduca Leopoldo II e la Granduchessa Maria Antonietta
Il Granduca Ferdinando IV nel 1861
CITAZIONE
Grazie a Sofonisba per le notizie interessanti e le foto, davvero rare, riguardanti la storia dei Lorena in esilio. A questo punto gradirei anche il titolo di qualche libro per approfondire.
L’interesse in me è nato per puro caso, quando mi sono chiesta se ancora esistono dei loro discendenti, diretti o indiretti, in Italia.
Ho scoperto, tra l’altro, che uno di essi, l’arciduca Ludovico Salvatore, fratello di Ferdinando IV, fu uno scienziato naturalista e appassionato viaggiatore e che ospitò Sissi a Maiorca.
Come ho già detto più volte, e come Sofonisba insegna, penso che siano stati i principi stranieri migliori che l’Italia abbia avuto e che abbiano amato il nostro paese, tanto da divenire essi stessi più italiani che austriaci.
A proposito, giustificato sì dal comportamento scandaloso di Luisa, ma molto sprezzante e significativo, il commento di Francesco Giuseppe: “Ogni famiglia ha la sua “linea Toscana !”
Dimenticava che anche la linea principale aveva i suoi scheletri nell’armadio, sia pure nascosti fino alle estreme conseguenze.
Elena45
Sono contenta di essere stata utile, e fornirò anche qualche titolo, tenendo conto che la mia biblioteca è per metà deportata in casa di mio padre, e che quindi non li ho tutti sottomano ora.
Posso rispondere per punti, anzi a puntate?
Innanzitutto posso segnalare un link sull’Arciduca Luigi, quello che riuscì ad essere simpatico a Sissi. E’ questo:
http://www.ludwig-salvator.com/ital/basis.htmE questo è proprio lui:
Riguardo ai discendenti attuali, non vivono in Italia ma a volte ci vengono in visita, e sono persone serie che non fanno parlare di se. Se interessa, posso postare anche le foto. Ma proseguo domani, perché sono un po’ stanchina.